E così eccomi qui. Appena sveglio, un lenzuolo a coprirmi alla bell'e meglio. Lo sguardo fisso nel vuoto attraverso il fumo della mia sigaretta.
Yvonne dorme ancora, mentre io mi godo, ancora soddisfatto ed inebetito, i primi raggi del sole tra le veneziane - chissà perchè la gente continua ad usarle. E chissà perchè si chiamano veneziane -.
Me ne sto qui, immobile, e guardo questo deposito, che un letto, un tavolo ed una caffettiera, rendono la mia casa.
Non mi serve molto per vivere. Mi bastano le mie sigarette, il mio caffè, qualcosa da mangiare, un vecchio giradischi gracchiante e una macchina da scrivere.
Già, una fottuta macchina da scrivere. Yvonne non perde occasione di ricordarmi che alla soglia del nuovo millennio dovrei decidermi a passare ad un computer - "così salvi la foresta amazzonica!", mi dice -.
Ma non posso. Le parole sono qualcosa di intangibile, sfuggente; non posso rinunciare anche alla materialità della carta. All'inchiostro che resta sulle dita quando c'è da cambiare il nastro. Non posso rinunciare al cestino sempre colmo accanto al tavolo. Alle notti insonni passate a scrivere e riscrivere un passaggio poco convincente. Alle ore passate a rileggere ostinatamente quei fogli, cercando il difetto di questo o quel personaggio, solo perchè quell'istinto tanto geniale quanto avaro, s'accorge che non è credibile così com'è, senza però renderne evidente la ragione alla mia coscienza.
La mia vita da scrittore è giusta così. Voglio che sia così. Un block notes nella borsa insieme ad una penna; per non perdermi nulla, ma proprio nulla di quel che accade nella mia testa. Qualche, bè forse sarebbe meglio dire tanti, tantissimi appunti, bozze, tratteggi di personaggi, luoghi, trame sparsi in giro in questa tana. Le mie sigarette. Il mio caffè. Qualcosa da mangiare. Il mio vecchio giradischi gracchiante. La mia macchina da scrivere. Yvonne.
Persino ora, mentre penso queste parole, le batto a macchina. drin.
A capo, inizia un altro giorno.
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